Qui si tenta di pensare la violenza. Non già contemplarla come una sostanza, sempre identica a se stessa, come un'essenza non segnata dai concatenamenti in cui viene convocata o si trova ad operare. Se così fosse, pensare la violenza significherebbe non solo sacralizzarla ma anche interpretarla come ciò che impedisce ogni pensiero, così che il pensiero dovrebbe, per restare fedele a se stesso, separarsi da ogni violenza e combattere ogni sua manifestazione. È quello che in fondo sostiene il pensiero neo-liberale. Qui, invece, si tenta di ripetere il gesto di Benjamin: pensare la differenza nella violenza. La violenza puramente annichilente non rappresenta la verità d'ogni violenza, ma l'affermarsi di una prospettiva, di una "valutazione" che rende la violenza annichilente o sterminatrice. Se pensare significa inaugurare un concatenamento che rompe con le relazioni abituali, ogni pratica di pensiero creatrice, dalla politica all'arte, è anche un atto di violenza. Allo stesso tempo, i concatenamenti abituali da cui il pensiero ci slega non hanno nulla di naturale: si sono costituiti grazie ad un modo della violenza e, per parafrasare Benjamin, si mantengono grazie alla violenza. Che senso ha allora il discorso che ripudia la violenza? Quale prospettiva e quali effetti produce? Pensare oggi la violenza significa inevitabilmente pensare la modalità della violenza prodotta dal discorso che si propone di eliminarla.