"Tra due coniugi che, per dono di natura, sono bisessuali si può impedire, in nome del diritto positivo, l'uso promiscuo dei corpi?"; "Un ermafrodito il quale è capace d'usare indifferentemente l'uno e l'altro sesso può prendere in moglie una donna e nello stesso tempo sposare anche un uomo?". L'autore, esaminando le risposte date dalla giurisprudenza e ricostruendo il dibattito medico svoltosi nel XVII secolo, sotto il controllo della teologia morale, giunge alla conclusione che le discipline che accettano l'idea di un terzo genere, e su quest'ipotesi stabiliscono i diritti dei bisessuali, non lo fanno perché accolgono le istanze dei diretti interessati. Non si trova infatti nell'età moderna un solo processo per ermafroditismo nel quale un individuo abbia pubblicamente rivendicato la sua bigenitalità come fatto naturale e abbia posto il problema del riconoscimento legale dell'ambiguità del suo corpo e della sua anima. Chi viene sottoposto a un procedimento penale rivendica sempre e solo di appartenere, malgrado le apparenze, a uno dei due generi in cui si divide l'umanità. Nelle discussioni tra teologi, medici e giuristi del Seicento si procede insomma alla costruzione di una differenza (fisica) e alla proclamazione di una uguaglianza (giuridica) come puro gioco ed effetto di potere. Per questo si può parlare d'invenzione e messa in scena della bisessualità.