Consacrato dal "New York Times" come "il più importante artista americano della sua generazione", Matthew Barney (1967, California) sperimenta tutti i linguaggi della contemporaneità: dalle installazioni al film, dalla scultura alla video art, la sua opera si configura come una peregrinazione, il racconto di gesta d'eroi intrappolati in complicati percorsi a ostacoli, costretti a continue fughe e digressioni. Seguendo queste peripezie, gli spettatori si ritrovano nei meandri di mondi immaginari governati da leggi misteriose, nati dalla combinazione di miti celtici e leggende sportive, manuali di medicina e trattati di sessuologia, deliri autobiografici e cosmologie di universi sospesi tra occultismo e melodramma. Matthew Barney è il più allucinato cantore di quella trasformazione antropologica che negli ultimi decenni ha tramutato le nostre vite in spazi colonizzati da tecnologie portatili e microscopiche, in un mondo ormai governato da un'integrazione sempre più promiscua tra reale e artificiale, tra biologico e meccanico. Ricollegandosi al linguaggio della performance anni sessanta, in cui artisti come Vito Acconci, Marina Abramovic, Bruce Nauman, Chris Burden o Joseph Beuys davano forma a strani rituali spingendo il proprio corpo all'estremo, Matthew Barney innesta la tradizione dell'arte contemporanea su un filone nuovo, nel quale confluiscono l'estetica patinata dello sport e la fotografia delle riviste di moda, il tutto immerso in un'atmosfera carica di una sessualità morbosa.