Il caso di Gian Piero Bona è quello di chi più avverte il senso della tragicità della posizione del poeta contemporaneo, immerso in una coscienza di separazione, nel sentimento del trascorrere delle cose, del loro perire, e nell'immagine della morte, là ove non è che auto-contemplazione, nichilismo estremo, grandiosità funebre, quale risposta a una richiesta di poesia consolatoria, attraverso una gnomica della fine. Si tratta qui di rottura con il lirismo ermetico di ieri e con una sostanza di passioni novecentesche, riconoscendo il proprio stato di alienazione, opponendo alle proprie meraviglie una negazione totale. Così Bona si presenta poeta raffinatissimo, prezioso, sagace, spirito acuto con quest'opera che conferma il suo valore sulla scena letteraria italiana. Siamo forse a uno dei culmini della sua poesia, nel supremo equilibrio della parola, perfetta nella scansione delle immagini, dei concetti, dei ritmi, e il tutto con profondità di linguaggio nella violenza del dubbio e dei quesiti ammonitori e solenni. E suo gran pregio è di dare a tale visione del mondo una elevatezza formale spesso splendida, in forza di quella cultura classica che è alle sue origini.