Heidegger era un'ottima ala sinistra, Derrida era un buon centravanti, Camus giocava in porta (come Giovanni Paolo II) e un numero non piccolo di filosofi ha utilizzato il calcio per fare filosofia: Sartre amava dire che il calcio è una metafora della vita, Wittgenstein giunse alla svolta del suo pensiero guardando una partita di calcio, Merleau-Ponty spiegava la fenomenologia parlando di calcio. Come mai? Il calcio si basa su un principio: il controllo di palla. Ma il principio non può essere finalizzato a se stesso. Per giocare bisogna necessariamente abbandonare la palla e metterla in gioco. Controllo e abbandono sono i due principi del calcio e della vita. La filosofia, come gioco della vita, si basa su regole calcistiche: per filosofare bisogna saper mettere la vita in gioco. E per questo motivo che nel Divino pallone si spiega l'idea di Platone con Pelé, la contraddizione del nonessere con Garrincha, la virtù e la bellezza con Platini, ma anche l'inverso: il genio di Maradona con la "logica poetica" di Vico, la visione di gioco di Falcão con il mito della Caverna, il cucchiaio di Totti con la metafisica di Aristotele. E tanto altro ancora. Il calcio, infatti, non è solo una metafora, ma un paradigma cognitivo che con la sua connaturata idea di pluralità dà scacco matto al fenomeno politico più drammatico della Modernità: il totalitarismo. Hitler e Stalin pretesero di controllare tutto e ci riuscirono. Pretesero di controllare anche il pallone. E persero.