Una sera d'inverno del 1513 una figura indistinta s'avviava verso una modesta casa signorile a Sant'Andrea in Percussina, a pochi chilometri da Firenze. Si era levata in piedi dalla panca della taverna, aveva scansato carte e dadi, e fatto un cenno di saluto con la mano. Era Niccolò Machiavelli, oppresso dalla condanna al confino che il gioco non bastava a fargli dimenticare. Poco più di un anno prima era stato protagonista della scena politica fiorentina, ma al rientro al potere dei Medici la Fortuna gli aveva voltato le spalle. Il brusco cambio di regime lo aveva privato dell'impiego. Il suo presunto coinvolgimento in una congiura antimedicea gli era costato la tortura, il carcere e il confino. Gli rimaneva ora una sola missione da compiere: tornare nelle grazie della famiglia più potente di Firenze. Lo avrebbe fatto chinandosi ogni sera sulla scrivania del suo studiolo, dopo aver indossato con riguardo i panni curiali. Avrebbe preso in mano la penna, l'avrebbe intinta nell'inchiostro e avvicinata alla pagina scura per l'ombra del capo. Scrisse "Il principe" dedicato a Lorenzo de' Medici, nipote del Magnifico: non voleva passare alla storia, voleva solo riottenere il suo posto nella Cancelleria fiorentina. Qualsiasi impiego andava bene, anche "rotolare un sasso" per la dominante famiglia dei Medici. Un Machiavelli umanissimo prende vita nelle pagine del "Principe inesistente", suo ritratto fedele che rovescia l'immagine algida di genio politico.