Pronipote del più noto umanista neoplatonico Girolamo, il canonico Antonio Benivieni il Giovane ricoprì nella Firenze mediceo-granducale del secondo e tardo Cinquecento incarichi di una certa rilevanza tanto in ambito ecclesiastico, con la nomina a vicario generale dell'arcidiocesi, quanto nel vivace panorama umanistico, arrivando a detenere sia il ruolo di console che di censore presso l'Accademia Fiorentina di cui era membro. Ed è credibile ritenere come proprio durante l'esercizio delle più amene attività accademiche, sottraendosi alle cure vicariali e concedendosi momenti di riposo a salvaguardia della sua da sempre periclitante salute, Antonio il Giovane si sia cimentato in un iter drammaturgico personalissimo, in un agone a distanza con i classici, mediato dalle allora attuali teorie sul tragico, quantunque, nelle sue argomentazioni, accortamente dissimulate. Con tale presa di distanza dai contemporanei discettatori di materia teatrale, il nostro, tacitando il riferimento all'imprescindibile magistero aristotelico, aveva inteso far credere di innestare la propria poetica sul più remoto lacerto concettuale formulato da Gorgia Leontino. L'originalità di tale arbitrio trattatistico, l'impossibilità di un'attribuzione certa delle opere alla creatività del canonico, insieme ad altri aspetti tanto formali quanto presuntamente sostanziali, avevano indotto Vincenzo Follini, che per primo si occupò del codice oggi segnato F.N. II.I.91...